la tessera 2022 dedicata a Etty Hillesum

 


 

Etty Hillesum (1914-1943)

Esther (Etty) Hillesum nasce il 15 gennaio 1914 a Middelburg in Olanda (la madre Rebecca Bernstein vi era giunta dalla Russia in fuga dal pogrom del 1907), in una famiglia ebraica non praticante, agiata e colta, che dal ’24 si trasferisce a Deventer, dove il padre, insegnante di latino e greco, diventa preside del Ginnasio. Etty, vitalissima e animata da interessi poetico-filosofici, con una precoce predilezione per Rilke, si trasferisce ad Amsterdam dove si laurea in giurisprudenza. Nell’Olanda ormai occupata, a inizio ’41 l’incontro – decisivo – con Julius Spier. Ebreo tedesco in fuga da Berlino, già direttore di banca, padre di due figli e divorziato, Spier, che ha frequentato a Zurigo Carl Gustav Jung, quando cinquantaquattrenne arriva ad Amsterdam è uno psicoterapeuta di grande fascino. Etty ne diventa allieva e appassionata amante, come emerge dal diario, che tiene dal marzo 1941 al settembre ’43.

Sullo sfondo della guerra e della persecuzione antiebraica, vi annota le trasformazioni che la investono in profondità. Scrive a fine ’41: «Paura di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di fiducia in me stessa». Con l’«intelligenza dell’anima» («solo col cervello» non basta), matura piena consapevolezza: «Bene, io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so. Non darò più fastidio con le mie paure… Continuo a vivere con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato» (3 luglio ’42). Non la sorreggono categorie teoretiche, né spiritualismo o quietismo: la sua vitalità si nutre di una valenza corporea, i suoi pensieri (come nel Diario di fabbrica di Simone Weil) rilasciano un’inconfondibile fisicità.

Etty è pronta alla scelta dell’altruismo radicale, che include il nemico e si tinge di una peculiare religiosità. In una pagina riporta il colloquio con l’amico comunista Klaas Smelik (proprio a lui Etty affida i suoi quaderni, che egli tenterà invano di far pubblicare nel primo dopoguerra, mentre vi riusciranno poi i figli): «Klaas, non si combina niente con l’odio. (…) Klaas, volevo solo dirti questo: abbiamo ancora così tanto da fare con noi stessi, che non dovremmo neppure arrivare al punto di odiare i nostri cosiddetti nemici. Siamo ancora abbastanza nemici fra noi… non vedo alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri… E Klaas, vecchio e arrabbiato militante di classe, ha replicato sorpreso e sconcertato insieme: sì, ma... ma questo sarebbe di nuovo cristianesimo! E io, divertita da tanto smarrimento, ho risposto con molta flemma: certo, cristianesimo – e perché poi no?»

Etty segue un cammino personalissimo, ha un ritmo religioso tutto suo, non dettato da chiese o sinagoghe, dogmi o teologie, liturgia o tradizione, che le erano estranei. «Quando prego, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo “Dio”». E tuttavia la sua riflessione si inserisce a pieno titolo nel dibattito sul Concetto di Dio dopo Auschwitz (per citare H. Jonas): come Simone Weil, Etty giunge alla conclusione che solo rinunciando all’attributo dell’onnipotenza Dio può conservare quelli irrinunciabili di bontà e giustizia. Il suo Dio, se si vuole ancora pensarlo come buono, è disarmato di fronte all’orrore degli eventi mondani, impotente a intervenirvi: è, solo in quanto immerso nell’anima delle creature umane. Di fronte ai «massimi enigmi di Dio», la Hillesum attua un paradossale rovesciamento: «… tu non puoi aiutare noi, ma siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. (…) A ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere la tua casa in noi».

Nella primavera ’42 iniziano in Olanda le deportazioni di massa a Westerbork, campo di smistamento verso Auschwitz. Etty dal 15 luglio lavora al Consiglio Ebraico che, nell’illusione di salvarsi dal peggio, redige e consegna ai nazisti gli elenchi degli ebrei. A fine mese non se la sente più di non condividere la sorte di chi l’ha preceduta: scrive il suo nome nell’elenco dei partenti per il campo. Aveva annotato il 28: «Naturalmente, non si potrà mai più riparare al fatto che alcuni ebrei collaborino a far deportare tutti gli altri. Più tardi la storia dovrà pronunciarsi su questo punto».

Il 7 settembre 1943 Etty, suo padre, sua madre e il fratello Misha lasciano Westerbork (una cartolina gettata dal treno in territorio olandese, raccolta e spedita da contadini, è l’ultimo segno di vita che di lei ci rimane). Giungono ad Auschwitz il 10 novembre: i famigliari sono immediatamente avviati in gas, Etty vi muore il 30. La testimonianza della sua resistenza esistenziale è conservata in undici quaderni in scrittura minuta e fitta, e un corpus di lettere, pubblicati tuttavia solo all’inizio degli anni Ottanta (in italiano Adelphi: Diario 1941-1943, ed. ridotta 1985, integrale 2012; e Lettere 1942- 1943, 1990).

Annota a Westerbork, appena prima della partenza: «Certo, è il nostro totale annientamento! Ma sopportiamolo con grazia. … Di notte, mentre ero coricata nella mia cuccetta, circondata da donne e ragazze che russavano piano, o sognavano ad alta voce, o piangevano silenziosamente, o si giravano e rigiravano – donne e ragazze che dicevano spesso durante il giorno: “non vogliamo pensare”, “non vogliamo sentire, altrimenti diventiamo pazze” – a volte provavo un’infinita tenerezza, me ne stavo sveglia e lasciavo che mi passassero davanti gli avvenimenti, le fin troppe impressioni di un giorno fin troppo lungo, e pensavo: “Su, lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca”».

Poco più avanti, le ultime parole del diario: «Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite».

 

 

 

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