Esther (Etty)
Hillesum
nasce il 15 gennaio 1914 a Middelburg in
Olanda (la madre Rebecca Bernstein vi
era giunta dalla Russia in fuga dal
pogrom del 1907), in una famiglia
ebraica non praticante, agiata e colta,
che dal ’24 si trasferisce a Deventer,
dove il padre, insegnante di latino e
greco, diventa preside del Ginnasio.
Etty, vitalissima e animata da interessi
poetico-filosofici, con una precoce
predilezione per Rilke, si trasferisce
ad Amsterdam dove si laurea in
giurisprudenza. Nell’Olanda ormai
occupata, a inizio ’41 l’incontro –
decisivo – con Julius Spier. Ebreo
tedesco in fuga da Berlino, già
direttore di banca, padre di due figli e
divorziato, Spier, che ha frequentato a
Zurigo Carl Gustav Jung, quando
cinquantaquattrenne arriva ad Amsterdam
è uno psicoterapeuta di grande fascino.
Etty ne diventa allieva e appassionata
amante, come emerge dal
diario,
che tiene
dal marzo 1941 al settembre ’43.
Sullo sfondo della guerra e della
persecuzione antiebraica, vi annota le
trasformazioni che la investono in
profondità. Scrive a fine ’41: «Paura di
vivere su tutta la linea. Cedimento
completo. Mancanza di fiducia in me
stessa». Con l’«intelligenza dell’anima»
(«solo col cervello» non basta), matura
piena consapevolezza: «Bene, io accetto
questa nuova certezza:
vogliono il nostro totale
annientamento.
Ora lo so. Non darò più fastidio con le
mie paure… Continuo a vivere con la
stessa convinzione e trovo la vita
ugualmente ricca di significato» (3
luglio ’42). Non la sorreggono categorie
teoretiche, né spiritualismo o
quietismo: la sua vitalità si nutre di
una valenza corporea, i suoi pensieri
(come nel
Diario di fabbrica di Simone Weil) rilasciano
un’inconfondibile fisicità.
Etty è pronta alla scelta dell’altruismo
radicale,
che include il nemico e si tinge di una
peculiare religiosità. In una pagina
riporta il colloquio con l’amico
comunista Klaas Smelik (proprio a lui
Etty affida i suoi quaderni, che egli
tenterà invano di far pubblicare nel
primo dopoguerra, mentre vi riusciranno
poi i figli): «Klaas, non si combina
niente con l’odio. (…) Klaas, volevo
solo dirti questo: abbiamo ancora così
tanto da fare con noi stessi, che non
dovremmo neppure arrivare al punto di
odiare i nostri cosiddetti nemici. Siamo
ancora abbastanza nemici fra noi… non
vedo alternative, ognuno di noi deve
raccogliersi e distruggere in se stesso
ciò per cui ritiene di dover distruggere
gli altri… E Klaas, vecchio e arrabbiato
militante di classe, ha replicato
sorpreso e sconcertato insieme: sì,
ma... ma questo sarebbe di nuovo
cristianesimo! E io, divertita da tanto
smarrimento, ho risposto con molta
flemma: certo, cristianesimo – e perché
poi no?»
Etty segue un cammino personalissimo, ha
un ritmo religioso tutto suo, non
dettato da chiese o sinagoghe, dogmi o
teologie, liturgia o tradizione, che le
erano estranei. «Quando prego, non prego
mai per me stessa, prego sempre per gli
altri, oppure dialogo in modo pazzo,
infantile o serissimo con la parte più
profonda di me, che per comodità io
chiamo “Dio”». E tuttavia la sua
riflessione si inserisce a pieno titolo
nel dibattito sul
Concetto di Dio dopo Auschwitz
(per citare H. Jonas): come Simone Weil,
Etty giunge alla conclusione che solo
rinunciando all’attributo dell’onnipotenza
Dio può conservare quelli irrinunciabili
di
bontà e giustizia.
Il suo Dio, se si vuole ancora pensarlo
come buono, è disarmato di fronte
all’orrore degli eventi mondani,
impotente a intervenirvi: è, solo in
quanto immerso nell’anima delle creature
umane. Di fronte ai «massimi enigmi di
Dio», la Hillesum attua un paradossale
rovesciamento: «… tu non puoi aiutare
noi, ma siamo noi a dover aiutare te, e
in questo modo aiutiamo noi stessi. (…)
A ogni battito del mio cuore cresce la
mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma
tocca a noi aiutare te,
difendere la tua casa in noi».
Nella primavera ’42 iniziano in Olanda
le deportazioni di massa a Westerbork,
campo di smistamento verso Auschwitz.
Etty dal 15 luglio lavora al Consiglio
Ebraico che, nell’illusione di salvarsi
dal peggio, redige e consegna ai nazisti
gli elenchi degli ebrei. A fine mese non
se la sente più di non condividere la
sorte di chi l’ha preceduta: scrive il
suo nome nell’elenco dei partenti per il
campo. Aveva annotato il 28:
«Naturalmente, non si potrà mai più
riparare al fatto che alcuni ebrei
collaborino a far deportare tutti gli
altri. Più tardi la storia dovrà
pronunciarsi su questo punto».
Il 7 settembre 1943 Etty, suo padre, sua
madre e il fratello Misha lasciano
Westerbork (una cartolina gettata dal
treno in territorio olandese, raccolta e
spedita da contadini, è l’ultimo segno
di vita che di lei ci rimane). Giungono
ad Auschwitz il 10 novembre: i
famigliari sono immediatamente avviati
in gas, Etty vi muore il 30. La
testimonianza della sua resistenza
esistenziale è conservata in undici
quaderni in scrittura minuta e fitta, e
un corpus di lettere, pubblicati
tuttavia solo all’inizio degli anni
Ottanta (in italiano Adelphi:
Diario 1941-1943,
ed. ridotta 1985, integrale 2012; e
Lettere 1942- 1943,
1990).
Annota a Westerbork, appena prima della
partenza: «Certo, è il nostro totale
annientamento! Ma sopportiamolo con
grazia. … Di notte, mentre ero coricata
nella mia cuccetta, circondata da donne
e ragazze che russavano piano, o
sognavano ad alta voce, o piangevano
silenziosamente, o si giravano e
rigiravano – donne e ragazze che
dicevano spesso durante il giorno: “non
vogliamo pensare”, “non vogliamo
sentire, altrimenti diventiamo pazze” –
a volte provavo un’infinita tenerezza,
me ne stavo sveglia e lasciavo che mi
passassero davanti gli avvenimenti, le
fin troppe impressioni di un giorno fin
troppo lungo, e pensavo: “Su,
lasciatemi essere il cuore pensante
di questa baracca”».
Poco più avanti, le ultime parole del
diario: «Si vorrebbe essere un balsamo
per molte ferite».