16 Settembre 2022
Piergiorgio Bellocchio, tra confessione, riflessione e commento
SCAFFALE.
«Diario del Novecento», dello scrittore e critico piacentino per Il Saggiatore
Un ritratto di Piergiorgio Bellocchio
Se si ricorda la figura di Piergiorgio Bellocchio la prima cosa che viene in mente a quelli della mia generazione è «Quaderni piacentini», la rivista da lui fondata, diretta e autogestita dal 1962 insieme alla sua amica Grazia Cherchi, con l’aggiunta di Goffredo Fofi a partire dal numero 28, che aveva l’ambizione di fondare una nuova cultura di sinistra in opposizione al sistema e all’industria culturale, a cui hanno collaborato intellettuali di diverse generazioni.
Ma Diario del Novecento, uscito con la cura di Gianni D’Amo e pubblicato da Il Saggiatore (pp. 616, euro 35), è piuttosto a «Diario» che fa pensare, cioè alla seconda rivista fondata nel 1985, scritta e autogestita dallo stesso scrittore piacentino insieme ad Alfonso Berardinelli (con la compagnia di classici come Kierkegaard, Simone Weil, Leopardi ecc.) e portata avanti per dieci numeri fino al 1993, a cui la legano diversi elementi.
MA SE «DIARIO»
era
una rivista principalmente «cattiva», cioè che intendeva aggredire il processo
di modernizzazione e l’acritico aggiornamento teorico e politico della sinistra
rispettosa, i miti e i disvalori dominanti, il totale conformismo e
l’omologazione culturale in atto negli anni ottanta e nei primi anni novanta,
in Diario
del Novecento,
a parte qualche frecciata al solito Eco, a Scalfari e ad altri campioni della
cultura dominante, a prevalere sono invece la confessione, la riflessione e il
commento. E di fatto il libro è composto principalmente da note di storia,
culturali, di costume, di critica letteraria e cinematografica, da racconti
autobiografici, da ritratti critici di maestri e compagni, ecc. Tra i tanti
modelli si possono indicare i moralisti classici, i grandi scrittori realisti
dell’ottocento, Leopardi, Kierkegaard, Kraus, Brecht e Adorno dei Minima moralia.
Prima di passare a qualche citazione, occorre però precisare che questo libro
interessa il ventennio 1980-2000 e rappresenta soltanto una scelta dei 208
quaderni composti dall’autore a partire dal 1980 fino ad oggi, la cui prima
parte s’intitola proprio Fine di un’epoca, che coincide di fatto con la crisi
irreversibile del progetto politico e culturale della nuova sinistra e della
prima serie dei «Quaderni piacentini».
IN UN LIBRO
così
importante e così bello è impossibile scegliere i passi più salienti, perciò si
può iniziare con una citazione tratta da una nota critica dedicata al cinema di
Pier Paolo Pasolini, un autore su cui Bellocchio si è spesso soffermato nel
corso della sua carriera: «Ho tentato ieri, due novembre, di vedere fino alla
fine I racconti di Canterbury di Pasolini.
Senza riuscirci, a conferma del mio vecchio giudizio per cui Pasolini è
complessivamente un mediocre regista. Con l’eccezione di
Accattone
e
La
ricotta,
che sono due capolavori; di
Uccellacci e uccellini,
che è un film saggistico-giornalistico di un certo interesse; e anche del
Vangelo,
su cui mantengo riserve di ordine ideologico-politico, ma che pure è ancora un
film serio. Pasolini come autore cinematografico non mi convince (non includo
nel giudizio i due film che non ho mai visto:
Porcile
e
Salò-Sade).
I film mitologici (Edipo,
Medea)
e la cosiddetta Trilogia della vita (Decameron,
Canterbury, Le mille e una notte)
mi paiono vacanze esotiche, pretesti per citazioni, ‘contaminazioni’, sfoggi di
cultura letteraria e pittorica. Sceglie benissimo gli sfondi, le facce e i
corpi, ma poi non sa dirigere gli attori».
Ed ecco come rievoca l’ultimo incontro avuto con Fortini già malato, uno dei suoi maestri: «Il 28 agosto (’94), tardo pomeriggio, tra le diciotto e le venti circa. È molto dimagrito, debole. Fortini è sempre proiettato in avanti, è la sua fissa. Un’epoca è finita. Ogni volta che l’ho incontrato durante quasi quarant’anni, c’erano segni inequivocabili che annunciavano la fine di un’epoca, una svolta della storia: cui seguiva l’interpretazione dei segni. C’è in lui un’autentica spinta al futuro, la speranza politica, nonché l’ansia patologica di non essere a tempo, in sintonia, la paura di restare indietro. Al congedo, con voce commossa, mi incita a scrivere sulle Lettere (dei condannati della Resistenza italiana): ‘Scrivi, Piergiorgio, scrivi’».
QUESTI SONO SOLO DUE estratti di uno dei capolavori della letteratura italiana ed europea del secondo Novecento, di un moralista e di uno scrittore che nell’ultimo ventennio della sua vita ha deciso volontariamente di stare in disparte e lontano dai riflettori, a vivere con disincanto e amarezza le tristi sorti dell’Italia e del mondo.